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Incontro con Elsa BelottiGiobbe e le nostre sofferenze
4. LA SOFFERENZA COME COLPA?
Tutti proverbi popolari per dire che il solo modo di accettare la sua situazione è quello di accettare che ci sia un Dio che mi darà una spiegazione, ma nello stesso tempo di ribellarsi alla teologia del tempo: c’è la visione che in quel tempo c’era di Dio e che dopo centinaia e centinaia di anni, per non dire millenni, abbiamo ancora anche noi quando diciamo: “Perché Dio mi manda questo?". Stiamo sempre a considerare che se le cose vanno male, c’è sempre una punizione dietro. Ma naturalmente non è così!
Sapete poi che dopo i vari passaggi degli amici c’è un passo interessante, quando Giobbe provoca Dio e quindi oltre l’impazienza, la bestemmia, provoca Dio - Giobbe – e dice: “Verrai giù, Dio, a spiegarmi queste cose qui " (Cfr Gb 9): cioè Giobbe chiama in giudizio Dio e gli dice di venir giù a rendergli conto! Poi è bella la parte ironica finale quando Dio dice a Giobbe: «Ma come ti permetti tu di chiamarmi in giudizio? Dov’eri tu quando io ho creato tutto?» (cfr Gb 38).
Vediamo: gli interrogativi di ciascuno di noi sulla sofferenza. La prima domanda che ci facciamo sempre è: «Perché esiste il dolore?». Vi sfido a trovare una risposta. Se la trovate sono disposta a pagarvi. Non esiste una risposta a questa domanda. Potete darne cento, ma la vera risposta non esiste! Così come non esiste una risposta a chi chiede: «Perché proprio a me… questa disgrazia?». Il saggio risponderebbe: «Perché non a te? Chi sei tu?».
Un altro interrogativo è «Che senso ha la vita se c’è il dolore?». La vita la viviamo come una cosa bella, ma se c’è il dolore che senso ha?
E poi ci sono gli interrogativi su Dio che sono molto più pesanti.
«Se Dio è buono, come può permettere il dolore?».
«Se Dio può togliere il dolore e non lo fa, allora è un Dio cattivo. Se Dio non può togliere il dolore, cosa mene faccio? Ma se Dio può e non vuole togliere il dolore, che tipo di Dio salta fuori?».
Dietro tutti questi interrogativi, quando arriviamo a Dio non abbiamo una risposta.
Pensate anche che dopo l’Olocausto, gli Ebrei hanno dovuto interrogarsi sul loro concetto di Dio. Un Rabbino ha scritto un libricino che è proprio intitolato “Il concetto di Dio dopo Auschwitz" (Nota del Webmaster: Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz (una voce ebraica), Genova, Il Melangolo, 1997 – v.anche la recensione di Alfonso M. Iacono “ Il coraggio del dubbio" in Fuoripista, anno III, n° 1; oppure quella di Matteo Galletti in www.scanner.it
Per gli Ebrei è Dio che fa la storia. Noi sappiamo, per tutti i passaggi che ha fatto la nostra cultura, che è l’Uomo che fa la storia; ma gli Ebrei ancora oggi sono convinti che è Dio che fa la storia: ma se è così, allora come può Dio aver permesso l’Olocausto? Allora che Dio viene fuori se ha permesso questo?
E quindi il paradosso del dopo-Olocausto quale era? O Dio fa al storia e allora come facciamo ad accettare un Dio che ha permesso tutto questo; o non è un Dio che fa la storia, allora dobbiamo rivedere il concetto di Dio!
[…]
Noi sappiamo che non è Dio che fa la storia, però Dio è in movimento nella storia dell’uomo: questa è la nostra risposta cristiana.
Non è Dio che fa la storia, altrimenti noi saremmo dei burattini. Se Dio facesse tutto lui, che senso avrebbe il nostro operare? Non è Dio che fa la storia, ma Dio è in movimento nella storia dell’uomo per secoli e secoli ha preparato questo popolo, poi ha mandato Gesù Cristo che è l’azione dello Spirito Santo che è l’eredità che Dio ci ha lasciato […] il Figlio e sta lavorando ancora nella storia. Ma non è lui che fa la storia, perché ci tratterebbe da bambini incapaci, da burattini.
Ora tutti questi interrogativi sono un po’ il dubbio dell’uomo di sempre ed ad un certo punto l’uomo non sa più cosa fare.
E adesso noi stiamo interrogandoci e poi alla fine cosa facciamo? Le tre possibili alternative sono queste:
- La prima è il dolore è la condizione dell’uomo, che sicuramente è la teologia del tempo di Giobbe: sicuramente qualcuno ha commesso una colpa e questa sofferenza ne è la punizione. Questa scelta viene buttata addosso a Gesù quando gli portano il cieco nato (Gv 9,2).
Vediamo sempre la sofferenza come una colpa. Questa è la prima alternativa: la sofferenza, il dolore, è una punizione per qualcuno che ha commesso del male. Questa è la posizione del bambino; è il bambino che pensa che ci sia un papà grande che mi punisce. Chi pensa questo a livello psicologico è nell’infanzia. È il bambino che dice: “Io sono stato cattivo ed il papà mi ha punito".
- La seconda è quella dell’adolescente e dell’ateismo.
La posizione adolescenziale qual è?
Tu non esisti per me. Non mi dici nulla, quindi non mi importa nulla di te.
- La terza possibilità è quella del “Dio è morto e quindi la soluzione è quella del suicidio.
Allora abbiamo detto: la punizione psicologicamente è quella del bambino, l’ateismo è dell’adolescente, il suicidio è del bambino molto più piccolo di quello che pensa alla punizione.
E Giobbe arriva ad un certo punto a dire “maledetto il giorno in cui io nacqui" (Gb 3,1): in quel momento dice che il suicidio è meglio, e questa è la fuga del bambino molto piccolo. Io non esisto per nessuno e perciò è meglio che io scompaio. Queste cose succedono anche a persona grande che, comunque, psicologicamente è un bambino molto, molto piccolo.
Ci sarebbe un nota bene che conoscete già: le sofferenze nessuno le vuole, ma chissà perché andiamo tutti a cercarcele, e questo –forse- è il mistero più grande dell’uomo, più degli interrogativi che ci siamo posti prima.
E adesso tre storielle.
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